La sfortuna è sempre vicina

Tra incontri di gruppo promossi dal mio supervisore, seminari ospitati dalla mia università e articoli studiati il dottorato procede come dovrebbe. Nulla di particolare finché non è venuta a farmi visita la sfortuna.

Siamo soliti attribuire alla sfortuna un qualche avvenimento che ostacola i nostri piani, li danneggia o semplicemente non è gradito. Questa definizione mi piace perché libera la sfortuna dalla sua connotazione ultraterrena derivante da interventi divini o rituali folkloristici e la ridimensiona sul piano umano in modo estremamente semplice e quasi sereno.

Pochi giorni dopo aver ricevuto finalmente il permesso per parcheggiare all’interno dell’università la mia macchina manifesta perdite d’olio sempre più invalidanti. Dopo averla portata dal meccanico più di una volta per controlli, alla fine mi comunica che è un problema relativo al motore e va cambiato. Dopo un po’ di sconforto iniziale, ho deciso di affidarmi al parere di un altro meccanico e mio cugino mi ha messo in contatto col suo di fiducia. Di ritorno dall’università passo da lui e dopo averla controllata riconduce la perdita alla coppetta dell’olio. Mi ha dato appuntamento per la mattina dopo (dovendomi svegliare molto presto e perdendo una mattinata di lavoro ma fa niente) e dopo la sostituzione della guarnizione e altri controlli me ne torno a casa felice di potermi dimenticare di questo fatto, sperando che il problema sia solo quello.

Sul fronte degli studi, affrontando un calcolo mi sono reso della presenza di condizioni in contrasto tra loro e non sono stato in grado di trovare una soluzione. All’inizio pensavo che ciò fosse dovuto alla mia mancanza di tecnica e per giorni provavo a capire dove fosse il mio errore. Scavando nel frattempo nella letteratura, mi sono accorto che la mia impossibilità di calcolo era dovuta a risultati noti (seppur non così famosi) che dimostravano appunto la non esistenza della mia tanto agognata soluzione. Come fattomi notare dal mio supervisore, questa è una grande opportunità in quanto ci permette di testare bene le premesse di un articolo che abbiamo scelto come punto di partenza.

Ora i due fronti procedono regolarmente, con io che sto imparando molte cose nuove che si parlano tra loro (anche se in modo ancora poco chiaro per me) e la mia macchina che fa il suo lavoro. Forse tutto ciò può sembrare sconclusionato ed ho la sensazione che lo sia, ma è stato un promemoria sul non abbassare mai la guardia.

La seconda e terza settimana

Dopo la mia prima settimana di dottorato, a cui mi piace pensare come una sorta di periodo di incubazione, le due che sono seguite hanno rappresentato una naturale continuazione in cui le cose hanno iniziato a farsi interessanti.

Sono entrato per la prima volta nell’aula dottorandi da dottorando. L’anno scorso ci andavo per lavorare col dottorando del mio supervisore di tesi magistrale. Eravamo impegnati nell’ampliare i risultati della mia tesi per un articolo che pochi giorni fa ha finalmente visto la luce in veste ufficiale su Physical Review D. All’apparenza ora le cose non sono cambiate, ma come già ho scritto nello scorso articolo, in verità è cambiato tutto.

Ho preso possesso di una scrivania, fatto amicizia con gli altri ragazzi dell’aula (molti già li conoscevo di vista) e familiarizzato con quell’aula ma ora in una veste a me totalmente nuova. Ho potuto constatare come, essendo un ambiente molto grande, ci sia una naturale suddivisione dell’aula in base all’area di appartenenza dei dottorandi. Io sto nella metà della stanza in cui vi sono quelli che si occupano di fisica teorica e sono molto contento di ciò. Ovviamente tutte le sezioni della fisica ha pari nobiltà, ma è inevitabile che poi ognuno veda la propria in modo più appassionato e quasi sentimentale. Siamo essere umani anche noi.

Si è tenuto il primo incontro di gruppo, voluto dal mio professore come appuntamento settimanale per creare appunto un’identità di gruppo, essendo una cosa nuova. Ho presentato l’articolo che funge da base per i miei sviluppi futuri e mi ha molto divertito farlo: è bello parlare di certi argomenti e avere persone che ti ascoltano mentre lo fai, è difficile ricreare situazioni simili all’esterno dell’università, anche se non totalmente impossibile (come quando partecipai a Maggio al Pint of Science). Ho avuto il permesso ufficiale per poter parcheggiare la mia auto all’interno dell’università, segnando la fine dei miei anni di brigantaggio in cui mi intrufolavo senza essere visto. Non sempre mi riusciva, ma quando avevo successo ero immensamente felice, forse più del dovuto per cose di questo tipo che possono sembrare banali.

Ho scelto e comunicato i corsi di dottorato che ho intenzione di seguire, sto scegliendo a quali conferenze partecipare, preparando gli argomenti per il prossimo incontro di gruppo e cercando di vivere tutto questo non alla luce di tutte le peripezie che ho vissuto lo scorso anno, senza cioè che il passato possa ancora una volta intromettersi nell’oggi. Sto pensando al presente, a come fare meglio ciò che ho sempre voluto fare, a come imparare ciò che ho sempre voluto fare e, nel mentre, guardare al futuro finalmente con cauto ottimismo e quasi con un senso di sfida. Siamo tutti vittime del fato e dell’ordine ignoto degli avvenimenti, ma a volte sale in noi la prontezza d’animo e la risolutezza che ci spinge quasi a volerci giocare.

Non sono abituato a essere ottimista ma mi riesce difficile ora non esserlo.

La prima settimana di dottorato

La mia prima settimana di dottorato è finita e nulla sembra essere cambiato rispetto a prima.

Tralasciando la burocrazia e piccole scelte da compiere (come per esempio quali corsi seguire), questi giorni mi hanno visto semplicemente stare a casa e studiare. Col mio relatore ho scelto l’argomento di cui voglio occuparmi (ma questo processo è cominciato molto tempo prima) e mi sono pienamente dedicato a rivedere vecchi esami e riprendere alcuni libri che avevo per ristudiare molti dei concetti che poi mi serviranno. Nel corso degli anni di studio ho acquisito una certa esperienza nello studiare e specialmente nel capire le cose e me ne sono accorto specialmente ora. Nelle mie vecchie carte vedo molto di più di quanto vedessi la prima volta, anche se le parole non sono cambiate e le formule continuano a essere le stesse. Mi è piaciuta questa sensazione, l’ho trovata in un certo qual senso confortante.

Quando ho scritto che nulla sembra essere cambiato, mi riferivo alle mie giornate. Ho trascorso questa settimana come quando ero studente in periodo di esami, o come quando, nell’anno che è passato tra la laurea magistrale e la vincita di una borsa di dottorato, riuscivo a ritagliarmi del tempo per scrivere i miei primi due articoli (che hanno svolto un ruolo importante nella vincita). Ora è tutto diverso perché ho una posizione, dei doveri, dei diritti, uno stipendio che mi permette di non preoccuparmi eccessivamente dei soldi. Ma continuo a restare a casa sulla stessa scrivania, con la stessa penna che sono solito usare. La sensazione è davvero strana da descrivere e non mi sento abbastanza bravo per trasmetterla, ma è come se fossi stato vittima di una certa inerzia al cambiamento, anche se è ciò che ho desiderato e per cui mi sono impegnato considerandola l’unica cosa che valga la pena fare.

Sono io in primis a percepire questo ragionamento come contraddittorio, ma vivendolo l’ho trovato perfettamente sensato. Ieri ho cercato di pensarci su in modo quanto più lucido possibile ed ho concluso che devo andare in università, anche quando non strettamente necessario. Ho bisogno di quei luoghi, delle persone che vi sono dentro e di tutte le piccole cose che vi succedono. Da domani comincerò ad andarci e per la prima volta entrerò in aula dottorandi da dottorato. Forse rendo il tutto troppo melodrammatico, ma alla fine le cose hanno solamente l’importanza che decidiamo di dare. Per me tutto questo è importante e non mi sento di vivere con leggerezza questo primo passo. Col tempo poi diventerà un’abitudine, ma non un qualcosa di scontato.

Il motivo

“Sapersi raccontare è un’arte”.

Ho sentito per la prima volta questa frase una sera al pub, in un anonimo giovedì sera di metà Settembre. Mi ero ritrovato a parlare con un attore, il quale tra vari discorsi (era interessante perché nella vita facciamo cose completamente diverse) mi chiese la mia storia. Scelsi quindi di raccontargli l’ultimo pezzo, l’anno accademico appena trascorso 2024/2025, che ho dedicato alla ricerca di un posto di dottorato in varie università di Europa e oltre. Forse il racconto andò bene, mi sembrava interessato ed si è concretizzato nella riflessione finale sul valore non solo delle storie, ma anche del narrarle in un modo che fosse alla loro altezza. Non ci avevo mai pensato. Non nego che raccontare una storia sia semplice, la letteratura ha come esponenti maggiori grandi storie con ancora più grandi narratori, ma non avevo mai preso in considerazione che il protagonista possa essere io con al centro la mia visione della mia vita. Queste riflessioni hanno reso quella serata interessante anche nei giorni a seguire e sono rimaste in misura più o meno preponderante in un angolo del mio subconscio, fino a ora. Voglio provare a raccontarmi, ma non in senso generalista: voglio scrivere dell’esperienza che vivrò per i prossimi tre anni, dato che alla fine dei giochi sono riuscito a vincere una borsa di dottorato. Credo che la differenza tra lo scrivere in un blog e in un diario personale sia la stessa che intercorra tra un monologo e un soliloquio: nel primo è intesa la presenza di un pubblico, nell’ultimo no. Si tratta si scrivere in modo vivo ma lucido a una potenziale platea, dovendo capire cosa per me sia scontato e cercarlo di introdurre al meglio. Questo progetto mi aiuterà sicuramente in un altro arduo compito che sono chiamato ad assolvere: far capire ai miei amici cosa faccia, in una giornata tipo, un dottorando in fisica teorica che si occupa di Relatività Generale e Gravità Quantistica. Tenendo una sorta di diario di bordo questa domanda mi creerà meno imbarazzo, in gran parte dovuto al fatto che nemmeno io so di preciso cosa farò. Sembra che un esperimento del genere non presenti controindicazioni, quindi perché non farlo?

Tutto ciò rappresenta la genesi del mio blog, CIVIM. Il nome altro non è che l’abbreviazione di Come Io Vedo Il Mondo, volendo sottolineare il quanto, seppur ci crediamo al di sopra dei nostri giudizi e pregiudizi e prospettive, alla fine riusciamo a vedere solo quello vediamo e ci vuole un grande sforzo (e onestà intellettuale) per andare un po’ oltre.